L'intervista a Claudio Sanfilippo di Corrado Ori Tanzi - 8th of May: https://8thofmay.wordpress.com/2020/08/28/claudio-sanfilippo-tra-il-mondo-e-milano-la-musica-come-antidoto-al-degrado/
L'intervista di Francesco Garozzo - La Stampa: https://www.lastampa.it/milano/appuntamenti/2020/06/21/news/claudio-sanfilippo-ecco-come-ho-partorito-il-mio-nuovo-album-in-quarantena-1.38990760/
Ci sono artisti che si possono definire artigiani, perché usano la parola, ma anche la musica, come una materia rara, Claudio Sanfilippo è uno di questi. Il cantautore milanese nel giro di pochi mesi, ha pubblicato due dischi molto diversi tra loro: “Boxe” e “Contemporaneo”. Il primo è un lavoro completamente acustico, realizzato in solitaria, usando una ricca varietà di chitarre ( gli appassionati nel libretto troveranno tutti i modelli) , tra cui la classica baritono costruita dal liutaio Fabio Zontini appositamente per Sanfilippo. Il risultato è un disco molto intenso, per l’occasione Sanfilippo ha riaperto quei vecchi cassetti che sanno di legno, di ricordi, di passioni, di polvere, mettendo mano a 14 canzoni scritte tra il 1981 e il 2017. La titletrack che apre il disco è quasi un intro parlato che ci porta subito al passato ( “Il libretto di lavoro di mio padre sa di cedro e di castagne e cacao e brace di vulcano in riva al mare, il libretto di lavoro di mio padre ha l’inchiostro e la matita, la mano è una farfalla nella strada”), la voce è calda, avvolgente, con gli anni si è scurita e ha raggiunto un bellissimo smalto , le chitarre arpeggiano e accompagnano con delicatezza brani veramente intensi come “Grandi comici ” ( “Sono proprio io con l’anima tra i denti, sono proprio io questo cantante da osteria un po’ malandata, ma tanto affezionata a queste strade”) “Prigioniero” ( “Giorno per giorno carteggiare con le stelle, giorno per giorno come un libro sulla pelle, di questa terra dimmi un po’ sei sovrano o prigioniero? Sarà come perdersi ancora un’altra volta, la strada che non ti aspetti e che ti porta ora e per sempre tra le rovine, il tuo mestiere è fare rime”), “Memoria” (“E come fumo passo dal camino e il fumo è bianco e io sono un bambino, nei ricordi no, non vive mai la stessa storia, tu non dire più, lascia parlare la memoria”), “Gli occhi degli animali” ( ” Il chiaro di stravento si riflette sui quadrifogli, il gioco del tormento tra i cuscini si perderà, è la vita che non ha misura che ci tiene nei pensieri che non sai da dove si camminerà”), ” Riccioli neri ” ( ” Noi, due fari accesi laggiù strisciate di fotografia di pioggia amara e cittadina che non dà il profumo antico del granturco e della brina”), ” Il capitano” ( ” Ma tu lo sai che un capitano non sente freddo e non conosce una città, anche se poi quando è lontano abbassa gli occhi e piange e ride come noi”), “L’angelo” ( ” Se alzi lo sguardo lo vedrai, curva nell’aria quando la incontri non saprai più raccontarla è rosa profumata, che si spoglia al di là della beltà nella luce non si ferma la sua storia”) e “La terra che c’è in me” ( ” Seguendo il fiume nella mano tra le golene camminare, alla mia sete di paesano la mezzaluna può bastare, tra sassi, platani e sabbioni inciampo nella primavera e abbraccio tutte le stagioni mentre saluto la corriera e la terra che c’è in me”). Il virus poi ha fermato tutti i concerti, ma non la fantasia e la voglia di fare sempre cose nuove, ecco allora che nasce “Contemporaneo” nello studio casalingo di Sanfilippo e con l’aiuto a distanza di amici musicisti di altissimo livello come Rino Garzia, Cesare Picco, Domenico Lopez, Danilo Minotti, Massimo Gatti, Claudio Farinone, Danilo Boggini, Val Bonetti, Max De Bernardi, Umberto Tenaglia, Francesco Saverio Porciello, Marco Ricci . Un istant-album, uscito solo in digitale con la copertina di Giacomo Sanfilippo, che contiene tredici brani di cui otto inediti, due vecchi brani in una nova veste tratti dal disco “Fotosensibile” del 2008 (“Lo sguardo” e “Monetina”) , una cover in italiano di Nick Drake (“Northern Sky”) e una di Bob Dylan (” Cross the green mountain”), un adattamento in milanese di un brano tradizionale anglofono (” Wayfaring stranger”). Anche qui il risultato è ottimo, veramente ben riuscite le traduzioni in Italiano, oltre ad una serie di nuovi brani come l’attualissima “Contemporaneo” con il sostegno dei figli Emma ai cori e Giacomo alla chitarra (” E hanno bruciato anche il vocabolario, l’hanno sostituito col rosario del nuovo ordine della moneta confessionale,i testimoni dell’oscurità, dai loro pulpiti di taffetà, pagati bene per il mestiere di giudicare”), “Teneramente, dolorosamente ” ispirata da un libro di Cristina Campo ( ” Le foglie in tramontana, un verde lago, un’alba che non ci allontana arancioviola dietro al faro, un’eco irresistibile e sovrana, sono preziose le parole turchese, ambra, vesuviana”), “Ragazze del lago” ( “Nel lago che tramonta sui loro cappellini, ci sono bianche vele, un bianco nel blu, antiche come il fuoco acceso nei cortili, antiche come il ghiaccio che vedi lassù), ” Che cos’è la luna” (“è un pianto fitto di mistero, un male sempre fuori orario, ma in un dolcissimo cantare, un calendario volerà”) e “Suruq” dedicata alle origini siciliane del padre e con un bell’intreccio vocale tra padre e figlia (“Se girerà scirocco, sarà la tua stagione, il fiore con la spada, Urano col bastone, le carte siciliane tra gli occhi semichiusi, spericolate e vane, dolcissime pertusi, spericolate e vane”). Due ottimi lavori con canzoni vive, che rimangono addosso, che fotografano la realtà in maniera poetica, canzoni da cogliere sorseggiando un liquore e fumando un buon sigaro, per capire che Sanfilippo è un fuoriclasse, non una conferma, ma una certezza della nostra canzone d’autore.
Marco Sonaglia - Il popolo del blues
Per avvicinare BOXE, entrare nella fatica ultima di Claudio Sanfilippo, potete partire dalle parole, pescando a caso. Potete staccare anche solo un ramo, foglie comprese, dal suo albero di quattordici canzoni e l’aria si fa subito fina, si vola alto. Chessò, potete prendere un frammento, anche solo uno di Prigioniero, traccia numero quattro e veder riproposto in tre-minuti-e-ventitre-secondi l’interrogativo di Max Weber: società o individuo a definire la realtà? Dice: “Giorno per giorno carteggiare con le stelle, giorno per giorno come un libro sulla pelle di questa terra, dimmi un pò sei sovrano o prigioniero?”. Insomma siamo guardie o ladri? L’antinomia a suggerire che BOXE è un disco che si fa ben ascoltare ma sopratutto costruisce un ascolto. Sanfilippo ti prende per mano, indica la strada, ti scruta, pone le domande, voi metteteci le risposte. Ti asseconda, ci mette colori, immagini, suoni, parole, non molte, quelle che bastano, quelle che servono, il disegno fallo tu. Già, mah! Allora? Allora il Sanfilippo di BOXE è tutto lì sul tavolo. Tutto quel che ha raccolto tra il 1981 e il 2017 sta su un tavolo grande come la memoria, la sua, l’ordine è maligno, a voi l’onere del senso. Come accade sempre del resto, come la vita insegna. E la musica? Asciugata da sette chitarre sette, tante ne ha. La musica? La musica può aiutare. A esser compìti però qualcosa di Claudio Sanfilippo si deve dire. Un minimo. Un’idea della figura che pennella il suo fare in quel “perdersi ancora un’altra volta, la strada che non ti aspetti e che ti porta ora e sempre tra le rovine, il tuo mestiere è fare rime”. Grava infatti, in chi scrive, il sospetto che non siano bastate le interpretazioni di Pierangelo Bertoli (Casual Soppiat Swing, 1987), di Mina (Stile Libero, 1993, La Palla è Rotonda, 2014), di Eugenio Finardi (Con questi Occhi, Alba, Lucciola, 1996), di Cristiano De Andrè (La notte di San Lorenzo, 1995) e di tanti altri, a farci apprezzare - come si dovrebbe - una delle più belle penne di casa nostra et anche un più che discreto chitarrista finger stylist. Cosa non semplice.Arrivare al Claudio Sanfilippo di BOXE per via biografica significa ormai ragionar per decadi. Almeno quattro. Roba lunga. Dovremmo dire dell’esordio al Club Tenco a metà anni ’80, imberbe e fresco di un decennio d’impregnazione, quello che per gli altri non conta. Si dovrebbe pure accennare alla Sony Music che si accorge di lui e lo imbarca per un decennio e aggiungere subito dopo che alla fine degli anni ’90 scende da quella nave per impulso libertario e letterario. Perché scrive Claudio Sanfilippo, anche. Lo fa più volte, di gusto, senza rimorso, in prosa ed in poesia.E poi bisognerebbe dire di Milano, del suo amore, grande, per questa città, l'attenzione che Sanfilippo ripone per l’urbana facoltà di nascondersi nelle sue pieghe con l'orgoglio di una resistenza faber a tutti i sovrani. Milanese e ahimè milanista, Sanfilippo aggredisce con Scuola Milanese (2014) il vuoto, la voragine, lasciata o che lasceranno da lì a poco, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Dario Fo, Nanni Svampa. Con lui a rimirar le guglie, dal basso, ci sono Carlo Fava e Folco Orselli. Compagni perfetti per riprendere il dialetto, addomesticare la nostalgia di nebbie e taxi rigorosamente verdi e neri e accompagnare una città in evidente stato di grazia e allo stesso tempo minacciata dal suo stesso brillare. Scivolare su Milano sarebbe discorso lungo, tuttavia BOXE chiude proprio con Piscinin, la reinterpretazione in chiave meneghina di Little Man You Had a Busy Day (1934) quasi un tenue filamento che lo lega al Pischinin del lontano Enrico Molaschi. Arrivare a BOXE via Milano è tornare su Ilzendelswing (2016). BOXE pare avvantaggiarsi dall'ascolto combinato dei due lavori. Si svelano nel reciproco e nella differenza. Ragionar doppio illumina l’ultimo tratto di strada. BOXE pare così penetrabile per differenza. Se Ilzendelswing è il “fuori” sfrontato di A mì me piass, L’ Angelo è il “dentro” sognato, indovinato dietro il pagliaio. Se là Mì son Vùn è l'affermazione di un modo di essere, qui Memoria è la trasformazione del passato, l'interpretazione che rigenera. Ecco BOXE rammemora e incornicia, ma per starci solo un momento, nel ricordo e nella cornice, per fiatare e andare oltre.
Mauro Musicco - Mescalina
Non c’era al Tenco, dove manca da troppi anni, Claudio Sanfilippo, però presente nell’omaggio a Siviero, e soprattutto in pista col suo ultimo album, Boxe (MRM/IRD), intimo ed elegante, voce e chitarra acustica, molto domestico, come il milanese sa essere, magistralmente. Disco raro e prezioso, indiscutibile massaggio per l’anima.
Alberto Bazzurro - MUSICA JAZZ
Quando ho finito di ascoltare per l’ennesima volta questo disco, nel mio studio fatto di legno e legni e di respiro di cani e di bicchieri seccati dall’urgenza della gola, di monitor che sono occhi e mi guardano senza vedermi e luci che segnano l’emergenza di questo mio vivere in bilico sulla corda sospesa sulle passione e il pane, era notte e notte perduta per sempre. Un tempo che avrei voluto restituito tale e quale per la meraviglia che ti prende quando hai un libro negli scaffali che resta lì giorni e anni e capita quasi con distrazione che te lo porti al cesso e scopri che son pagine che non avresti dovuto aspettare per leggere e chiedi spazio e tempo al mondo per riguadagnarti alla vertigine del racconto. Così è capitato con Boxe, il disco di Claudio Sanfilippo che, a essere onesti, era una mia scelta consapevole e anche curiosa ma che per la maledizione dell’andar vivendo m’era restato sul tavolo ancora chiuso nel velo trasparente che fa la differenza tra nuovo e usato, una sorta di imene che dichiara la perdita dell’innocenza di un contenitore di pagine o suoni una volta lacerato.E per ascoltare un cd dice che oggi ci sia il problema che nemmanco i computer hanno più quel piattello che usciva a chiamarlo e che ingoiava i dischi con una lappata. Non m’ero ancora abituato davvero a questa tecnologia e già dice che è stata superata e ora ti puoi versare tutta la discografia di Frank Zappa concentrata in una goccia e puoi fartela cadere nell’orecchio richiamando i titoli solo sbattendo le ciglia. Cosi dicono. L’uomo contemporaneo uccide le tecnologie appena le ha create per darsi l’ebbrezza del presente continuo, dell’abolizione del passato e della storia. E invece in questo libro di storia e di tempo ne corre parecchio. Tutto ruota attorno a una chitarra e una voce chiusi in una stanza a raccontarsi cose, come per Nebraska di Bruce Springsteen ma più pertinente con il nostro immaginario che con il rombo d’auto dalla cubatura infinita lanciate nella notte delle highway.Canzoni perfette, foto in bianco e nero dove la misura del colore sono le infinite possibilità dei grigi. Amo potentemente questo disco, mi sbilancio sfrontatamente ma a un passo dalle feste e dai panettoni m’è arrivata la suggestione che tutto fosse vero e questo disco fosse il mio regalo per i giorni deputati ai doni da scartare e io che sono da sempre un pacco e ho passato la vita a essere scartato da tutto ho sentito che tra una canzone e un’altra c’era la mia rivalsa. L’incipit è qualcosa che ti obbliga ad ascoltare, a lasciar perdere l’ipotesi di poter lasciare andare i brani continuando a scrivere, che ti pagano quasi a parola e ti vendi a briciole per farti durare di più vivo. “Il libretto di mio padre sa di boxe e spogliatoio…” è la restituzione di una memoria domestica alla memoria condivisa. Dell’odore dell’aringa messa in terrazza nel barattolo. E riconosci gesti tuoi e ti ricordi bambino mentre sedevi sulle assi messe sui vasi di alici salate dove ti sedeva tuo nonno, lì sul balcone, per far peso e spurgare i filetti.Una chitarra costruita apposta dal liutaio Fabio Zontini e canzoni che coprono un arco temporale che va dal 1981 al 2017. Claudio Sanfilippo è prima di tutto voce, poi sono racconti e immagini a passo di corde e legno e vorrei immaginarmi certi suoi versi cuciti addosso a Piero Ciampi e invece mi tornano piuttosto in mente certe passeggiate di Luciano Bianciardi nella Milano febbrilmente produttiva dei giorni del Boom mentre cerca di battere un altro tempo e ridare dignità alla nozione d’uomo che dovremmo portarci addosso. E allora questo è il disco per chiudere l’anno con la chiave giusta, da portarselo in macchina la notte di capodanno, che io la fine del tempo la passo spesso correndo nell’autostrada deserta e mi fermo a mezzanotte a brindare con gli addetti degli autogrill e quest’anno a tutti sussurrerò “Da queste parti posso battere moneta ma non si vende niente, qui nel mio pianeta, solo raffiche di vento è il commercio del poeta”. Quest’anno Folco Orselli prima e Claudio Sanfilippo adesso mi hanno fatto sospettare che a Milano succedano cose come vorrei capitasse spesso in giro. Grazie a loro e buon anno a tutti.
Giorgio Olmoti - L'isola che non c'era
Claudio Sanfilippo, neanche il tempo di sgusciare da Boxe (Maremmano Records, 2019), di metter fuori la testa dalla scatola, di respirare, di uscire dall’area del rigore nella quale, solitario, si era chiuso per raccogliere e dispensare i fogli orfani di un decennio, rilancia lesto, in super-combo, Contemporaneo. Rapido a comprendere che il lockdown ammanettava il cervello, ingarbugliava, confondeva il desiderio di progetto, ha registrato di getto, nel tinello di casa, un album di spessore per ordinare, incorniciare in copertina dadaista, tredici brani tra inediti, adattamenti, riletture di amori domestici e di altri oceani.Contemporaneo è anche brano d’apertura che intitola l’album. E’ la prima bordata. La pallottola d’oro, giusto in mezzo agli occhi del pipistrello liberista, che oggi costringe a muoverci come mutanti mascherati. Abbiamo passato il confine, questo è certo, non sarà facile ritrovare la strada di casa, servono torce, luce, anime nobili. Non rosari. Teneramente e dolosamente è la ballata a seguire che tiene alta la bandiera dell’essere, dello stare e del transitare, perchè di odori, colori, sapori siamo fatti. Per questo viviamo con qualche straccio di certezza. Stile Libero? Ma sì, mettiamola, ripensiamola. La sponda è lontana se non sai nuotare con stile, non ci arriverai mai. Dove? Sotto il Cielo del Nord. Pulito, ripulito da tre mesi di blocco industriale, il cielo è quel Northern Sky di Nick Drake che bello appare nella rilettura perché gli appartiene. Dal cielo si ringrazia. Bellissima anche la rivisitazione in milanese del tradizionale Wayfaring Stranger. Quale miglior miglior sermone della contemporaneità? Non siamo in cammino come dei pellegrini ? Non siamo costretti alla lentezza del Viandant ? Non cerchiamo santuari, ristoro per l’anima? La strada, altri antenati l’han già percorsa, andiamo avanti. Qualcuno intercederà, si spera. In tema di sentite appropriazioni Claudio Sanfilippo pesca anche dal mazzo dilaniano Cross The Green Mountain, un gran bel brano, tra i meno celebrati ma tra i più emozionanti del Bob Dylan cronologicamente più vicino a Noi. Il tributo è in lingua madre, coglie timbro, epica, senso della traduzione che trasfondono in Oltre la Montagna. Toccare Mr. Blue Eyes è sempre arte del farsi male ma la scelta non è banale, l’esecuzione esemplare premia Sanfilippo che ne esce indenne et anche bravi i sodali che reggono manuntercio. Appagati dall'hammond di Umberto Tenaglia ci si potrebbe anche fermare. Potete però andare avanti in Contemporaneo per apprezzare come chi sa ri-leggere sa anche leggere e chi sa leggere può scrivere. In questo Claudio Sanfilippo è maestro. Quando esercita il dono “che si scrive prima di partire” ammalia e accarezza. Le Ragazze del Lago, Lo Sguardo, Vino Buono, Monetina, Angelina, come dice la canzone sono grammi d’incanto, meglio non toccare, vanno bene così. Di calcio, tema ricorrente del nostro, che, mettitelo bene in testa, se non sai di calcio non sai di vita, sbraita El Pepe, di Schiaffino Jaun Alberto si narra. Ballerino su due gambe, che fu anima grande di piede e di testa, di veroniche e anche di primi avveduti, ricicli finanziari. Paraguaiano sparagnino, sapeva di mare e di sapienza ligure. Di questo avrebbe bisogno un campionato finito male come una punizione sparata in tribuna. Ci ricorderemo. Con Sanfilippo una panchina lunga di collaborazioni generose perché l’acqua è al ginocchio, se vivi di musica la partita del momento è lunga e difficile. In campo gli amici di sempre, i complici di una medesima urgenza. Emma e Giacomo Sanfilippo, voci genealogiche, stavano già in salotto. Max De Bernardi, Danilo Minotti, Francesco Saverio Porciello, Val Bonetti alle chitarre, Danilo Boggini alla fisarmonica, Marco Ricci, Rino Garzia ai bassi, Massimo Gatti alla mandola, Cesare Picco al pianoforte, Umberto Tenaglia all’hammond, hanno aperto la cassetta dei ferri per l'ardimentoso confezionamento. L’insieme gioca alto, sperimenta una situazione inedita, proibitiva per tutti ma maledettamente complicata per chi fa musica. Eppure si può, si deve fare musica. Qualcuno prima o poi si accorgerà che Fedro ci ha imbrogliato, che non si tratta di cicale ma di tenere arieggiato il formicaio. A tirar la rete in barca per Contemporaneo sovviene il consiglio di quell’avveduto professore di sociologia che per capire di potere e società invitava i propri studenti piuttosto di morire su Durkheim di andar sullo Stendhal de Il Rosso e il Nero. Ecco, piuttosto che deprimervi in molteplici, ammorbanti, ascolti dal lazzaretto contemporaneo potete intendere il Claudio Sanfilippo di Contemporaneo. Aiuta a capire ciò che sta in bilico, ciò che ci manca e ciò che accade oggi a noi, anime sospese.
Mauro Musicco - Mescalina
Ho sempre pensato che, prima o poi, dovrei stilare una lista di cose per cui valga la pena vivere, giusto per avere, in punto di morte, qualcosa a cui pensare, che mi faccia tentare di rimanere attaccato alla vita o, mal che vada, me la faccia lasciare serenamente. Sicuramente è una lista di cui farebbero parte molte cose che, per ragioni anagrafiche, non ho potuto vedere in prima persona, penso al gol di Van Basten nella finale di Euro ’88 o al riff di Mark Knopfler su “Lady Writer”. E penso ai Monty Python. Dei geni assoluti, che sicuramente in quel brutto e grigio tempo che è adesso verrebbero censurati ad ogni piè sospinto. Ah, i vecchi tabù che ritornano… Parlando dei Monty, qualche giorno fa pensavo a “Il senso della vita”, la scena in cui il grasso Creosote esplode, dopo un pranzo luculliano, per una mentina. Che sarà un po’ la nostra fine (o il nostro nuovo inizio, fate voi): prima o poi, a via di ingozzarci di musica di merda, esploderemo. Musica di merda fatta, sempre per rimanere in tema Monty Python da “artisti” che sono un po’ come i cavalieri di Artù de “I Monty Python e il Sacro Graal”, quelli che cavalcano senza neanche una scopa a fare da finto destriero, con dietro il corteo di sgangherati a far da rumore di zoccoli. Ecco, la situazione non è tanto dissimile. Anzi, è esattamente la medesima: gente improvvisata incapace di fare le cose che dovrebbe saper fare per mestiere (i cavalieri cavalcare, i musicisti quantomeno saper cantare), come improvvisati erano quegli sconnessi cavalieri della Tavola Rotonda. Però, dal momento che i miei articoli non sono spunti di autocommiserazione, o quantomeno non solo quello, c’è anche il perpetuo discorso che la buona musica esiste, e sta a noi saperla cercare/consigliare. La buona musica è viva e lotta insieme a noi. Ci chiama forte e, soprattutto, suona contemporanea. Come “Contemporaneo” , di nome e di fatto, è il nuovo album di Claudio Sanfilippo. Adesso io non dovrei dare mai nulla per scontato, dovrei sempre snocciolare la qualsiasi. Ma il fatto che uno come Claudio Sanfilippo non sia riconosciuto all’unanimità come l’enorme cantautore che è, francamente grida vendetta. Per cui non vi presenterò la sua biografia (vi dico solo che Mina ha inciso una sua canzone, “Stile Libero”, che ha collaborato con Finardi e che ha vinto la Targa Tenco come miglior opera prima nel ’96, adesso a voi trarre le debite conclusioni), anche perché credo che questa sua ultima uscita parli per lui.Detto questo, perché vi dico di ascoltare “Contemporaneo”, soprattutto in un periodo come questo? Intanto perché rientra, a mio umilissimo parere, nella già citata categoria degli album per tempi più lenti che Paolo Talanca ha mirabilmente creato. E’ un album che va gustato goccia a goccia, brano per brano. A partire dalla title track, una potentissima invettiva in salsa noir blues alla sporcizia del nostro tempo, al neoliberismo sfrenato. “E hanno bruciato anche il vocabolario, l’hanno sostituito col rosario/Del nuovo ordine della moneta confessionale/I testimoni dell’oscurità, dai loro pulpiti di taffetà/Pagati bene per il mestiere di giudicare”. Ma potrei parlare anche dalla bellezza abbagliante e commovente di “Teneramente dolorosamente”, un concentrato di poesia che ci ricorda quanto siano “Preziose le parole”. E se lo dice uno che le parole le usa così bene, beh… io mi fiderei. Anche perché da chi scrive cose come “sarà il profumo schiuso di un colore”, immagine meravigliosa, c’è solo da imparare. Così come spettacolari sono le tre opere di traduzione compiute con “Cielo del nord”, “Viandant” e “Oltre la montagna” , traduzioni (anzi, adattamenti) di Nick Drake, di un canto popolare inglese e di Bob Dylan. Chi, come il sottoscritto, adora follemente l’opera di Nick Drake, saprà riconoscere nell’adattamento di Sanfilippo la stessa straziante delicatezza propria dei brani di Drake, frutto di uno studio attento ed appassionato. Altrettanto attenta e commovente è la traduzione in milanese di “Wayfaring Stranger”, qui arrangiata in uno splendido duetto chitarra- mandola. Il pezzo di Dylan è uno dei tanti inni antimilitaristi scritti dal bardo di Duluth, che nella versione di Sanfilippo ha un organo spettacolare, che si sposa perfettamente con l’atmosfera stranamente calma e, per contrappasso, pacificante del pezzo.“Lo sguardo” è un incastro perfetto di musica e parole, cucite da una delle armonie più belle che mi è capitato di sentire negli ultimi tempi. Un’atmosfera quasi nebbiosa avvolge tutto il pezzo, come un lontano ricordo evanescente. Insomma, una meraviglia. Altra armonia delicatissima e raffinata è quella di “Le ragazze del lago” , ondivaga e languida come il lago che culla le ragazze. “Che cos’è la luna” è uno di quei testi che, se dovessi riprendere il progetto iniziale di fare l’insegnante, farei tranquillamente studiare ai miei alunni. E’ una poesia meravigliosa, ne cito un passaggio a conferma: “E io vi guardo mentre guido/Il nostro sogno rabdomante/Infine l’acqua troverà/Così la luna avrà uno specchio/Potrà vedere com’è bella/ In questa luce un po’ arancione/La prima stella spunterà.” Il tutto montato sopra un arpeggio delicatissimo, con una chitarra slide che ricama sopra dei contrappunti dilatatamente onirici. Questo di Claudio Sanfilippo è un album da ascoltare perché usa le parole, come detto, in modo incredibile, ci dipinge. “Monetine” va in questa direzione: è un insieme di quadri, un testo che riesce a rendere perfettamente visibile e concreta ogni immagine. A proposito di dipinti di immagini… è la prima volta che un milanese (seppur dalle chiare origini siciliane) riesce a farmi sentire così bene, così nitidamente tutti i profumi della mia terra. Lo fa in “Suruq”, che, dall’arabo, è diventato il nostro “Scirocco”, brano che, come la title track, vede la partecipazione alla voce di Emma, che di Claudio Sanfilippo è la figlia, e che è la vera scoperta dell’album. Anche qua ci sono dei versi dalla bellezza abbagliante, come “In questo labirinto/diamanti e fuggitivi/la luna è sopra il tetto e i sogni sono vivi/per tutto ciò che è vero, e al sole non si vede/l’arte di regalare misteri a chi non crede” .Gli ultimi tre pezzi ci fanno decollare verso un comune luogo “fisico”, ma con tre diverse nuance stilistiche. Si vola verso il Sud America, quello nel pallone raccontato dalla poesia di Osvaldo Soriano, con “El Pepe” , dedicata a Juan Schiaffino, quello che fece piangere il Brasile ai Mondiali del ’50, brano dalle sonorità mariachi e con uno sghembo slang lombardosudamericano. Poi c’è “Angelina”, brano che farebbe un figurone nella discografia di Paolo Conte, per armonie, parole ed arrangiamenti. E’ immaginifica come le canzoni del grande Maestro astigiano, un verso come “alla fine lasciò dire a un bacio piano, che si amavano” è un capolavoro di poeticità e visionarietà letteraria. In ultimo c’è il ritmo bossanoveggiante di “Vino buono”, ennesimo tocco di classe ed immaginazione poetica: quell’ “aria fresca ed umida di pioggia” del ritornello è perfettamente ricreato dalla sezione ritmica, percussioni e contrabbasso, che letteralmente piove sul pezzo.Insomma, “Contemporaneo” è un album che è come quei libri che profumano di buono. E’ pieno di odori, di colori, di sensazioni, di poesia, di eleganza e di delicatezza. E’ un album di cui si avvertiva un gran bisogno, riconcilia con la musica italiana e, soprattutto, convince gli highlander della canzone d’autore ad andare avanti, sia nella ricerca che nella divulgazione: in chi ascolta davvero la musica, prima ancora di amarla, ci sarà sempre posto per album del genere, perché sono pietre preziose, lavori talmente puri che vanno davvero assaporati ad ogni boccone ed in ogni loro sfaccettatura.
Giuseppe Provenzano - Extra! Music magazine
La prima cosa che balza all’occhio, aprendo il bel libretto dell’elegante confezione che accompagna il nuovo disco di Claudio Sanfilippo, è l’elenco impressionante di chitarre che vi suono suonate. Invece che al posto dove normalmente sono elencati i musicisti, ecco, per dirne qualcuna, una Classica Baritone Fabio Zontini, una Martin d18, altre due Martin, la d35 e la 00028vs 2008 (tutte e due del 1971) e ancora una Gibson lg2 Americana Eagle. E altre ancora. Sono loro, insieme alla voce di Claudio Sanfilippo, i “musicisti” di questo disco, Boxe, ultimo capitolo della corposa discografia del cantautore milanese, Targa Tenco nel 1996 come miglior opera prima con il disco Stile libero. E poi canzoni scritte per Mina, Eugenio Finardi e tanti altri. Con Boxe Sanfilippo dichiara forte il suo amore per questo strumento, che lo ha accompagnato dai tempi in cui, ragazzo, amava il songwriting anglo-americano, da James Taylor a John Martin (approccio musicale che ritroviamo nell’eccellente fingerpicking di Gli occhi degli animali) per poi evolversi con la musica brasiliana e il jazz. Ma anche il cantautorato italiano dei tempi migliori, De Gregori, De André e Jannacci su tutti, i cui echi si colgono sottintesi qua e là in queste canzoni. Boxe raccoglie 14 brani, composti tra il 1981 e il 2017, rimasti fuori dai suoi dischi per ragioni che solo l’autore sa, ma che non sono “scarti”, come si dice nell’ambiente. Avrebbero potuto figurare benissimo in ognuno di essi, tanto sono belli. E poi c’è la sua voce, mai così intensa, noir, calda e ispirata, che lo si potrebbe definire il Leonard Cohen dei Navigli. Sanfilippo, come dice lui stesso, non scrive storie o cronache più o meno autografe, come fanno quasi tutti. Descrive immagini, a volte sfuggenti, a volte note solo a lui, come fanno i poeti, suggerendo luoghi, sentimenti e ambientazioni senza un messaggio preciso. E’ quello che fanno i grandi autori di canzoni, che lasciano libero l’ascoltatore di interpretarle e viverle come meglio preferisce. E’ la bellezza della musica, che non si impone, ma accompagna. La title track, che apre il disco, è forse il brano dal significato più evidente, visto che parla del padre morto alcuni anni fa, e certe sensazioni emergono inevitabilmente, sfondi, parole sussurrate, oggetti lontani nel tempo, un vaso, un piatto di aringhe, i tram che non passano, ricordi e momenti familiari. La chitarra è un'eco in lontananza, a suggerire queste visioni di commosso ricordo. Da un brano recente a uno che appartiene a un secolo fa, Grandi comici, del 1982, dove spicca la chitarra baritono costruita dal liutaio milanese Fabio Zontini, che esalta le atmosfere notturne alla Daniel Lanois. E’ una riflessione intima, quella di una generazione che ha vissuto impeti di cuore e adesso cerca di stare a galla e dove la saudade brasiliana detta il tempo della mestizia. La musica brasiliana emerge seppure sottovena anche in brani come Nuvola rosa, una dolce ninna nanna, di cui esiste una versione fatta da Rinaldo Donati per un suo disco intitolato Vagalume, dove è diventata “Bossa na hora”, così come Come una storia vera, altro brano rimasto nei cassetti per un trentennio addirittura, un Brasile diverso da quello della bossanova, più vicino a Milton Nascimento o a Jobim. L’angelo, accordatura aperta e chitarra acustica, richiama quel jazz folk caro a personaggi come David Crosby, è un blues, anche se non sembrerebbe tanto l’approccio è filtrato dalla personalissima visione musicale di Sanfilippo che dice rappresentare “la nostra parte spirituale, quella che non vediamo ma che possiamo sentire”. Stesso sound si ritrova anche ne Gli occhi degli animali. Molto bella è anche La terra che c’è in me, con reminiscenze del primo De André. Unico brano non originale è la conclusiva Piscinin, versione in dialetto milanese del classico americano Little Man You Had a Busy Day, un brano degli anni 30 inciso nel corso degli anni da nomi come Bing Crosby, Perry Como e anche Eric Clapton. Un disco notturno, da gustare come una buona grappa e un buon sigaro, per sognare la vita e vedere cose che ai più sfuggono. Come un vecchio frack, portato via dalle acque dei Navigli invece che dalla Senna. Perché la poesia appartiene agli uomini di ogni latitudine.
Paolo Vites - Il Sussidiario
Ilzendelswing di Claudio Sanfilippo è un album che viene da lontano, e lo fa passando per tante strade diverse. Tutte, suppergiù, attraversano Milano. Per cominciare, bisogna dire che Sanfilippo – chitarrista a proprio agio con la canzone americana e con la musica brasiliana – scrive canzoni e incide da tanto tempo e ha avuto modo di farsi rispettare anche sul palco del Premio Tenco. Una sua canzone sul calcio, che diventò inno delle dirette dei mondiali del Brasile con la voce di Mina, gli fruttò un momento di popolarità un po’ più ampia. A proposito di quest’album si è parlato, e propriamente, dell’eredità di Jannacci, per esempio: ma allora perché non anche I Gufi, Svampa, Patruno, e tutta quella canzone milanese che nello swing e nel jazz ha trovato i colori per cantare la Milano popolare. Se avete presente, ecco, mi pare che queste siano alcune delle coordinate utili per capire di cosa stiamo parlando. Ma oltre a tutto questo c’è un’altra storia che passa per Milano e arriva a quest’album, ed è una storia tanto emozionante per chi ne è stato interprete o anche solo testimone, quanto dimenticata già solo un attimo dopo. Negli anni Ottanta in Italia – e Milano fu uno degli epicentri di quell’esperienza – visse e suonò un piccolo ma appassionato movimento di musicisti che si dedicavano alle musiche tradizionali americane. Studiavano l’old time music, il country, il bluegrass e suonavano quella musica non solo nei locali ma anche in rassegne in cui condividevano il palco coi fratelli maggiori che venivano dagli States. C’era una rivista, Hi Folks!, che era il diario di quel periodo formidabile e il punto di riferimento per chi amava quei suoni. Poi l’esaltazione di quel momento si affievolì e la rivista, sotto la guida di Ezio Guaitamacchi (che suonava l’autoharp e il violino e cantava nei Country Jamboree) giocò la carta del mensile rock generalista, per diventare poco dopo la più popolare “Jam” (dove accadeva tutto questo? Sempre a Milano). Vai a sapere se nacque, anzi se morì, prima l’uovo o la gallina: fatto sta che all’estinguersi di quel movimento corrispose la fine di quella rivista povera ma bella, ed è difficile dire in che ordine accaddero i due fatti. Pochi dei superstiti diventarono musicisti di altissimo livello, in Italia o all’estero, con un proprio progetto o per conto terzi. Alcuni in particolare si impegnarono in percorsi quasi sperimentali che connettevano bluegrass e jazz (newgrass, progressive bluegrass e non so come altro si chiamasse quell’intreccio), come negli USA facevano Mark O’Connor e David Grisman. Di Grisman era allievo Massimo Gatti (milanese, appunto), fondatore nel 1977 dei Bluegrass Stuff, creativo e sorprendente mandolinista oggi di rilievo internazionale. Il mandolino di Massimo Gatti è una delle voci principali dell’album di Claudio Sanfilippo: è proprio l’affetto per una storia come la sua che mi ha spinto a cercare questo lavoro, con la speranza di ritrovare quella musica suonata con fedeltà alla lettera e allo spirito, ma ormai libera dalla soggezione degli allievi nel confronto dei maestri. E così ho trovato che Ilzendelswing è il migliore degli album di Claudio Sanfilippo. Che è un autore e interprete di razza, titolare di alcuni cd raffinatissimi, ma questo ha il valore aggiunto di un progetto veramente corale (per il quale l’autore torna ad esprimersi, dopo qualche anno, in dialetto milanese) e di un collettivo di grandezza ineguagliabile. Di Massimo Gatti ho detto, e già dalla prima traccia (che dà il nome all’album) si capisce il tiro che la sua presenza conferisce a tutto il lavoro. Max De Bernardi è uno spettacolare bluesman, maestro di chitarra acustica e dobro. Col contrabbassista Icaro Gatti (giovanissimo figlio di Massimo: suona il banjo nella formazione attuale dei Bluegrass Stuff) costituiscono il gruppo base. A loro si aggiungono Veronica Sbergia, cantante formidabile e socia di De Bernardi, Colm Murphy al violino, Paolo Ercoli al dobro, Ellio Martina alla pedal-steel e Sara Vescovi ai cori. Dodici sono i brani, di cui quattro cover: Mì són vün è Man of Constant Sorrow, una celebre canzone tradizionale americana (l’hanno cantata quasi tutti: anche chi non lo sa l’ha ascoltata in “Fratello dove sei?” dei fratelli Coen; ma qui il protagonista si lascia alle spalle il Giambellino, non il Kentucky); Impermeabil Bleu è nientemeno che Famous Blue Raincoat di Leonard Cohen; Quater Franch è la scozzese The King’s Shilling, scritta da Ian Sinclair per la Battlefield Band (ma cantata anche da Karan Casey & James Taylor più di recente); infine El dì 21 de magg è il remake di 21st of May dei Nickel Creek, meno “storici” e più giovani degli altri autori di cui Sanfilippo ha preso a prestito le canzoni. Il cd (o la sua versione immateriale, scaricabile dai soliti store) dura quasi tre quarti d’ora. Come avrete capito, il territorio nel quale ci troviamo è quello della canzone d’autore e delle sue relazioni con la canzone americana e il folk celtico, che qui appaiono in modo più chiaro e credibile che, ad esempio, in qualche operazione recente sulle canzoni di Dylan. Perché Ilzendelswing è un lavoro che della canzone anglofona non esalta solo la letterarietà e anzi vive della consapevolezza che quella musica, per farla, bisogna saperla conoscere e suonare. Cosa che non sempre emerge da alcuni tentativi italiani di pagare il debito alla musica americana. Qui quella letterarietà è resa ma non tradotta pedissequamente, e dal punto di vista compositivo ed esecutivo il lavoro regge su una competenza e una familiarità con quel materiale e con quella cultura che, quando non ci sono, non possono essere rimpiazzati dalla perizia tecnica e nemmeno dall’eleganza e dal buon gusto da soli. Le canzoni sono molto belle, veri gioiellini. La lingua milanese non è un ostacolo all’ascolto più di quanto lo siano comunemente l’inglese o il napoletano, e quando ti sfuggono le parole ti godi la musicalità dei versi. Se ti lasci andare veramente, dopo un po’ pensi che Django Reinhardt è nato a Lambrate e sei sicuro di ricordare che Doc Watson suonava alla sera nei locali dei Navigli.Una parte del disco tira e swinga, un’altra ti consola e ti culla con ballate come A mì me piass, che è una di quelle cose che ti mancavano e non sapevi dove fossero finite. Tutto gira bene e – per quanto la musica sia molto immediata – come capita per molti dischi di valore, di Ilzendelswing ti innamori un po’ alla volta a forza di ascoltarlo. Bravi tutti e bravissimo Claudio Sanfilippo: l’ensemble stratosferico non toglie nessun merito al titolare, e anzi riuscire a raccogliere intorno a sé un gruppo di tale livello è un segno dell’autorevolezza artistica dell’autore.
Massimo Giuliani - Radio Tarantula
“Lunghessa: 42’ 35″”. Anche il timing, la durata del cd, è in stretto dialetto milanese, in questo straordinario disco che fa sembrare che Enzo Jannacci abbia finalmente trovato un erede. Ovviamente non è così, inutile cercare i nuovi Dylan come la gente fa da 50 anni: Jannacci, come tutti i geni, è irripetibile. Eppure qua dentro c’è tutta la freschezza, la milanesità, il senso gioioso di fare musica, l’ottimismo un po’ amaro che ha sempre contraddistinto il grande autore scomparso. Claudio Sanfilippo d’altro canto non ha mai fatto mistero di questa influenza, apparendo anche nello spettacolo tributo (a cura di Silvia Reggiani) “Grazie Maestro” che da alcuni anni omaggia lo scomparso medico-poeta con la partecipazione di tanti “piccoli eredi” di Jannacci. Sanfilippo poi non è un novellino che deve coprirsi di influenze altrui per darsi un contenuto. Una lunga carriera alle spalle, vincitore di una Targa Tenco, molti dischi di ottima fattura, adesso con “Ilzendelswing” incide probabilmente la sua opera migliore e matura. Ricordi, radici, appartenenza, popolo, amicizie, speranza: “A me piace la luna, l’ombra, le ragazze, mi piace cantare nella mattina”, dice in A mì me piass. E aggiunge nella title track iniziale: “E’ quando la musica ha sempre ragione”. Già, quella medicina misteriosa che “ha sempre ragione”. Il disco è una eccitante raccolta in chiave country-swing americana e non solo, tutti brani rigorosamente in dialetto milanese, a parte una traccia, curiosamente il brano che più ha Milano nel cuore, Milan, Coppi, Guzzi e Alfa Romeo. Ci sono diversi riadattamenti di tradizionali della canzone popolare americana come Mi son vun, che è Man of Constant Sorrow, incisa anche da Dylan nel suo disco di esordio e diventata celebre nella colonna sonora del film Fratello dove sei; della tradizione anglo-sassone, Quater Franch, riadattamento di The King’s Shilling dello scozzese Ian Sinclair; una straordinaria, commovente e sorprendente, Famous Blue Raincoat di Leonard Cohen che diventa Impermeabil bleu, cantata mirabilmente da Sanfilippo capace di far diventare le strade gelide e innevate di New York quelle nebbiose di Lambrate. E infine un brano dei Nickel Creek, El dì 21 de Magg, grande ensemble di country progressive americano dell’ultima ora che la dice lunga di dove Sanfilippo guardi. Il disco, inciso tutto in presa diretta, è infatti una esaltante cavalcata guidata dallo straordinario mandolino di Massimo Gatti, che svisa e improvvisa in lungo e in largo, così come dai bravi Max De Bernardi alla chitarra acustica e Icaro Gatti al contrabbasso (più la pedal steel di Ellio Martina, il dobro di Paolo Ercoli, il fiddle di Colm Murphy, e le voci di Veronica Sbergia e Sara Vescovi). Un disco frizzante, a tratti malinconico, ma alla fine divertente, come nella title track, un po’ Jannacci e un po’ Paolo Conte, o nello swing anni 40 di Kores e brill ancora con tocchi di Jannacci e Conte e la bella voce di Veronica Sbergia. Sanfilippo a chi scrive piace particolarmente nelle ballate lente, cantate con voce fumosa e notturna, piena di malinconia e di rimpianto, brani come Avril, ballatona da brivido, o Barcòn, dai sapori celtici. In tutto questo i rimandi a una Milano in parte scomparsa in parte ancora viva seppur nascosta emergono come pugnalate che feriscono nel loro dolce rimpianto: l’estate milanese al Giambellino, “l’alleluia nel ciel de Lombardia”, “l’interista disperato”, i bar, i matti, i santi e i peccatori (“Ci vedremo sotto un ponte, il ponte di Dio”). Non solo musica, perché questo disco è anche una sorta di libro confezionato con grande cura. Dentro ci sono le foto di Carlo Orsi, chiaroscuri di rara potenza iconografica e l’introduzione dello scrittore e giornalista Giorgio Terruzzi . “Ciò che era, rimane riemerge, respira, in un anfratto nascosto, dentro un portone segreto, sopra una facciata asburgica e imbrattata” scrive, e aggiunge: “Non sembra? Perché sei un pirla, lascia fare va là”. Già siamo tutti dei pirla ad aver ridotto Milano a una frenetica corsa alla pochezza del successo e dell’apparire incapaci di vedere la bellezza dei volti che l’hanno attraversata e dei muri e dei portoni che ci guardano in silenzio. Grazie allora a Sanfilippo che tiene vivo il cuore di una Milano che è là, appena dietro l’angolo della nostra indifferenza.
Paolo Vites - Il Sussidiario
A me piacciono quelli che pagano i debiti, anche affettivi, senza che nessuno vada a sollecitarli. Quello che lo fanno così, solo per amore. E quindi mi piace Claudio Sanfilippo per questa canzone, Senzabrera, che richiama una presenza calcolandola sull'assenza. A quasi dodici anni dalla morte di Gbfc, l'ex ragazzo che beveva i suoi pezzi, pur essendo milanista e riveriano, s'è messo in un angolo con la chitarra e ha raccontato, in settenari doppi e in dialetto (ci vuole un bel coraggio) la storia di una bandiera che sventola di notte. Un bel coraggio, fuori dalle parentesi, ci vuole anche a incidere un cd tutto in milanese. In cui, da breriano doc, Sanfilippo in un'altra canzone s'ispira all'avocatt Eberardo Pavesi, cresciuto in riva al Redefossi, ciclista dei tempi eroici. La vita di Pavesi aveva ispirato un libro al giovane Brera, Addio Bicicletta (ma il titolo previsto era L'avocatt in bicicletta). Sanfilippo, per la verità, mi piaceva già nel '96 quando lo vidi a Sanremo sul palcoscenico del Club Tenco. Mi fece l'impressione di un cantautore onnivoro e appartato, molto discreto, con parentele francesi più che nordamericane. Ben mi sta, perchè adesso fa in milanese anche una canzone di Tom Waits, ma qui il coraggio è relativo perchè è notorio che il milanese nelle traduzioni va come una lippa: l'ha magistralmente dimostrato Nanni Svampa con Brassens. In questo cd, fortemente atipico per i gusti dominanti, e, fosse solo per questo (ma non è solo per questo) da me più apprezzato, non si ritrova la Milano di una volta ma quella di oggi e di ieri, di quando el veder voleva dire finestrino (anche del treno). Storie nè di centro nè di periferia, di gente che fa tardi fumando e bevendo e ogni tanto sogna parole che fanno volare (ricordate Zavattini ?). Scrivo in giorni di Olimpiadi e garantisco che non è facile cantare un cantore. la parola si gonfia come il muscolo, avrebbe ammonito Gbfc con un endecasillabo non so quanto volontario, e avrebbe apprezzato la finezza di un aggettivo, tabacchent, che non si sentiva da anni. Senzabrera ha parole che non si gonfiano. Scorrono piane e quiete, pulite. Si possono tenere in mano e soppesare, buone al tatto come i ciottoli di fiume, prima di farli rimbalzare. Si possono bere, con una certa lentezza, come un rosso di rispetto. E si possono ascoltare, naturalmente, con animo da Senzabrera. E' una parola che ho coniato perchè anch'io avevo dei debiti da saldare, e mi fa piacere che sia servita a qualcosa. Ci sono canzoni-conchiglia, e questa è una. Per il resto, scomodando Prévert senza tradurlo, le jardin reste ouvert pour ceux qui l'ont aimé.
Gianni Mura - La Repubblica
Le parole fanno volare. La certezza viene dal piccolo capolavoro discografico di Claudio Sanfilippo interamente in milanese (il titolo, appunto, I paròll che fan volà). Mi viene male recensire questo disco: potrei farlo, anzi: mi verrebbe da farlo, ma preferisco raccontarlo per quello che ho avuto la fortuna di vivere nelle fasi della sua ideazione e realizzazione. A cominciare da uno dei pezzi più emblematici che contiene: La lüs, il cui titolo non è una curiosa coincidenza con l'incipit di una poesia di Franco Loi da Ismàn, bensì la messa in musica di quella stessa poesia. Un paio d'anni fa, dopo un pranzo milanese in cui avevo fatto conoscere Loi a Sanfi, che ne aveva letto con ammirazione tutti i libri, decidemmo per un concerto marchigiano dell'inedito duo. Fu una serata incompresa, presso il Teatro di Montelupone (non ricordo se arrivammo a cinque spettatori) che tuttavia generò in Sanfi il prodigioso omaggio che rappresenta il ragguardevole cammeo di questo suo terzo disco. Mirabile, come sempre del resto, l'arrangiamento di Rinaldo Donati, che intreccia (e strania) la chitarra classica con quelle elettriche, conferendo alla luce che piove addosso (se guardi il cielo, guardi nel cuore la vita) la piccola complicità dell'aria e del niente col respiro ampio e piano del fraseggio. Io me la ricordo, quella prima esecuzione per voce e chitarra nuda. Il teatrino sghembo e infreddolito aveva preso vigore improvviso, nonostante fosse ai più sconosciuta la lingua in cui Claudio cantava. Ma da quella voce, da quell'intensità di suoni e di parole, viene davvero la sensazione del volo aperto, quasi di una liberazione dalle strette della ragione, verso la franca luminosità del cuore. Il viaggio sonoro milanese di Sanfi, del resto, ce ne offre la più certa delle conferme: un disco sereno, innamorato, come quando in un minuto e poco più ci viene regalata una bossanova che non si fa scordare più (vigliacco, Sanfi: quando ci rendiamo conto di essere nel Brasile di risaia, il brano è già finito, lui ha già smusato un verso sull'accordo finale, non c'è spazio per il relax, si deve andare avanti). Così il viaggio prosegue, per le strade di Gianni Brera - vera icona dell'intero progetto - così come lungo i ricordi d'infanzia e giovanili, anime che ho già incontrato nei versi di Claudio: lui è in simbiosi, con Milano. Così tanto che ci si sente un po' lombardi anche noi. E appaiono, lungo le corde morbide e vinose della sua chitarra, gli scorci di scighèra (la sua nebbia), aneddoti formidabili (che grande narratore che è Sanfi, attraverso la poesia e la musica!), affetti e solitudini. Sì, ci sono parole che fanno volare: purché siano piene di vene, purché in esse scorra il sangue di un'esperienza, per quanto minuscola. Quella di Claudio è molto di più: da una parte, egoisticamente, mi viene da dire che per fortuna non se ne sono ancora accorti in molti. Dall'altra viene da dolersene, ma - come è proprio delle cose vere - ciò che è vero non tramonta. In mezzo ai frastorni più fastidiosi, in prossimità dell'ennesimo Festival di Sanremo, la piccola fiamma di questo gioiello non può spegnerla niente e nessuno. La cronaca macinerà come sempre quegli ennesimi cloni. La storia conserverà queste note. Per me I paròll che fan volà è già una bandiera.
Filippo Davoli - Sottosuoni
Se volete trovare il più bell'album italiano uscito nel 2005, dovete andare su internet. E' lì che si trovano gli indirizzi dei pochi e selezionati negozi che lo vendono. Ed è lì che lo si può comprare direttamente. L'indirizzo è lo stesso: www.maxine.it. I Paroll Che Fann Volà è stato prodotto quasi in casa e realizzato con pochi mezzi, ma ha un'anima e un tasso di poesia che colpiscono. Se fosse stato cantato in napoletano, tutti gli avrebbero dedicato articoli e copertine a non finire. Ma siccome è scritto e cantato in milanese, si rischia di considerarlo un prodotto "di nicchia". A pubblicarlo - dopo due anni di fatica e di troppe promesse non mantenute - è Claudio Sanfilippo. Un artista innamorato del jazz, del fado e della bossa nova. Uno cresciuto con James Taylor e Chico Buarque. Con John Martyn, Nick Drake e Stan Getz, ma anche con le parole di Gianni Brera (al quale ha dedicato la bella Senzabrera) e le poesie di Franco Loi (una è diventata La Lùs). ... a rendere questo lavoro il simbolo del 2004 sono soprattutto tre caratteristiche: è stato realizzato con pochi mezzi e con fatica (perchè ormai la vera musica è come i grandi prodotti artigianali: la fanno i piccoli e bisogna andarsela a cercare fuori dai soliti giri); tutta la struttura musicale del disco sta in piedi grazie ad uno stile unico (atmosfere milanesi condite con quelle americane, col fado e la bossa nova) e ad una serie di trovate (come una pompa di bicicletta o la preparazione di un caffè) che ci ricordano che idee e poesia valgono ancora. Infine, è un album in dialetto che solo per colpa della nostra miopia culturale e di certe esagerazioni politiche non viene preso in considerazione come faremmo con uno dei tanti lavori di cui magari non capiamo subito i testi. Così ci perdiamo - anzi, vi perdete - un album che davvero fa volare.
Gigio Rancilio - L'Avvenire
Con soli due album all'attivo, il fortunatissimo Stile Libero (Targa Tenco 1996) e Isole nella Corrente, Claudio Sanfilippo è diventato un musicista di culto per la scena italiana. Il suo nuovo cd, I Paroll che Fann Volà, è interamente composto in dialetto milanese. In origine avresti dovuto incidere un disco di canzoni per l'infanzia. "L'idea di un disco per bambini è lì, pronta per essere realizzata. E' stata preceduta da questo album in milanese per questioni casuali, direi. Ho sempre scritto anche in milanese e qualche anno fa la produzione "ambrosiana" ha vissuto un nuovo e intenso periodo di creatività, così sono entrato in sala d'incisione sulle ali dell'entusiasmo. Di solito mi succede così, decido di registrare un disco quando ne avverto l'urgenza". La maggior parte delle canzoni meneghine è dedicata alla mala. "Forse perchè la canzone milanese nasce dalla tradizione del cantastorie, così anche gli autori che si sono cimentati col nostro dialetto dal dopoguerra in poi hanno ereditato questa caratteristica genetica che è propria della cronaca cantata. Pensiamo a Valdi, Jannacci, Fo, Strehler e anche a Svampa che ha magistralmente restituito in milanese il repertorio di Brassens, che con certi mondi noir aveva molto a che fare. Quel tipo di "mala" non c'è più ormai da una trentina d'anni, è entrata nella poesia della memoria. ma proprio per il suo alto valore poetico non va dimenticato, anzi c'è un grande repertorio che ormai appartiene alla categoria dei "classici". E i "classici", si sa, hanno sempre tanto da insegnare, e non hanno tempo". Cosa ti ha sempre colpito dell'immaginario del Gran Milan ? "C'è una bella frase di Saint-Exupery che dice: "L'essenziale è sempre l'invisibile". Di Milano mi piace il pudore che nasconde la bonaria follia dei padani, che è lunatica, sghemba, un po' paradossale. Milan l'è un gran Milan è una frase che in fondo resiste al tempo e ai cambiamenti. Resta il luogo dove le cose accadono, nel bene e nel male". Da sempre sei un appassionato di musica brasiliana ... "La musica brasiliana mi ha insegnato che la musica è un evento emozionante, che non può mai essere slegato dalla propria esperienza quotidiana, sempre in bilico tra gioia e dolore. La loro saudade - intraducibile in italiano - è il confine misterioso e affascinante che aiuta a vivere e ad amare, in quella mi riconosco". Ti senti più poeta, cantautore o più milanese ? "La categoria di milanese non ha a che fare con il talento, e poi nonostante voglia molto bene alla mia città non amo flirtare con argomenti di campanile (se non per comiche ragioni). Mi piace pensare alla mia radice geografica come ad un destino culturale al quale non posso sottrarmi e per cui nutro un sentimento di amore e rispetto. La mia prima lingua resta l'italiano, e l'ispirazione mi è piovuta addosso ovunque, anche molto lontano dalla mia terra. Certo che sono orgoglioso della mia padanità, ma cerco di non ostentarla. Metà del mio sangue è catanese, quindi ..."
Luca Crovi - Il Giornale
Tre dischi in dieci anni non sono molti. Ma a Claudio Sanfilippo la musica piace farla al proprio ritmo. E come confermano queste 15 ballate cantate in milanese, il cantautore ha il passo leggero di chi ama addentrarsi nella vita di tutti i giorni (Avril) con parole gentili e una chitarra come unico (o quasi) accompagnamento. E quando Nanni Svampa duetta con lui in I Tosànn de Porta Tosa, più che un battesimo si ascolta un passaggio di testimone.
Emiliano Coraretti - Musica di Repubblica
Claudio Sanfilippo si è messo a volare perchè si è ricordato, di punto in bianco, di come gli parlava la nonna. Così, dopo duecento canzoni in italiano (e un premio Tenco), si è messo a scriverne qualcuna in milanese. Quattordici le ha messe in questo album. La Milano che canta Sanfilippo non ha nulla di passatista. Questo non è uno dei minori meriti del cd.
Bruno Gray - La Padania
Claudio Sanfilippo, raro esemplare di artista che negli anni ha molto diluito i suoi interventi con un piacere minimalista, fatto di soluzioni schive nel disegnare la sua traiettoria: maestri rivelati, Vinicus de Moraes, Giorgio Gaber e Gianni Brera, le sue ballate sono attraversate da una bellezza fragile, quasi diafana, da cullare anche mentre si ascoltano, spesso non immediate, mai banali o distratte.
Enzo Gentile - JAM
I più fortunati lo conoscono da quasi vent'anni, da quel 1985 in cui il Tenco lo invitò per la prima volta. Altri lo hanno scoperto undici anni dopo allorchè Stile Libero fu eletto opera prima dell'anno. Altri ancora se lo son ritrovato tra gli autori di Mina, Bertoli, Finardi. Sia come sia, Claudio Sanfilippo si ripresenta oggi - dopo un secondo album, Isole Nella Corrente, del 1999 - con un lavoro tutto in milanese..... ovunque il disco colpisce per il buon gusto, la misura, la capacità di dire tanto con poco, di arrivare al destinatario senza proclami nè colpi ad effetto, senza un'oncia di retorico o pleonastico. Non mancano certi afrori bossanoveggianti, sempre cari a Sanfilippo, e più in generale regna un senso di lievità che non è mai leggerezza. I momenti migliori ? Di primo acchito citeremmo il trittico iniziale e poi il dittico su Brera, La Lùs, delicata e preziosa (da una poesia di Franco Loi), e Rosada. Ma ogni piega del cd sa regalarci qualcosa che val la pena di gustare, di sorseggiare a fior di labbra.
Alberto Bazzurro - L'ISOLA CHE NON C'ERA
Senzabrera non è solo un geniale neologismo di Gianni Mura, coniato per raggruppare tutti i fedelissimi di Gioann Brera che si sentono orfani dopo la sua scomparsa, e cercano di andare avanti - nello sport come nella vita - camminando nel solco del grande giornalista e scrittore pavese. Ora è anche una canzone. L'ha scritta Claudio Sanfilippo: rigorosamente, come sua tradizione, in dialetto milanese. A Brera sarebbe piaciuta: e questo è il più bel complimento per Sanfilippo. Senzabrera è uno dei quindici brani dell'ultimo cd del cantautore milanese, I Paroll che Fann Volà. Che è sopra a tutto un atto di amore verso la sua città, un viaggio nella memoria.
Claudio Rinaldi - LA GAZZETTA DI PARMA
Elogio della lentezza. Il primo disco nove anni fa (e si beccò subito la Targa Tenco come miglior esordiente). Il secondo cinque e il terzo tra pochi giorni. E non è pigrizia quella di Claudio Sanfilippo. E' voglia di riflettere, di curare ogni dettaglio pur di arrivare a creare un'atmosfera. Quasi anche meteorologica: tutto intorno a chi ascolta "I Paroll Che Fann Volà", canzone dopo canzone, pare scendere la nebbia (Scighéra, come la canzone che chiude il tutto), a ovattare, a sfumare i confini, a dare qualche brivido.
Luigi Bolognini - La Repubblica
Qualche anno fa un suo album, Stile Libero (non tutto attaccato come poi ha fatto Ramazzotti: due parole, evviva il copyright !) ha vinto il Premio Tenco Opera Prima, a pieno merito. Ci sono canzoni delicate, molto belle, suonate benissimo da alcuni fra i migliori strumentisti in circolazione, cantate altrettanto bene, il suono è perfetto. Sanfilippo ama James Taylor e Caetano Veloso, e rielabora in modo originale e autonomo quel tipo di intelligenza e raffinatezza. Il fatto che sia amico di Eugenio Finardi (che odia gli accordini di sesta) vi garantisce che non è uno sdolcinato che "vuol fare il brasiliano". E lo assicuro: i giudici del Tenco hanno avuto ragione, e come per Varttina anche l'ascolto delle canzoni di Stile Libero di solito provoca domande tipo: "Ma è uscito questo disco ? Si trova ?". Bè, provateci anche voi. Non lo troverete. Nessuno l'ha mai trovato. Registrato, stampato, e praticamente mai distribuito. Nonostante un Premio Tenco, nonostante il giudizio più che favorevole di tutti".
Franco Fabbri - l'Unità
A quattro anni da “Stile libero”, suo album di debutto e Targa Tenco come 'migliore opera prima' del 1996, Claudio Sanfilippo torna con un nuovo lavoro, “Isole nella corrente” (pubblicato da Fridge), presentato dal vivo in un club milanese martedì 9 novembre. Ad ascoltarlo, un pubblico di amici (tra gli altri, Eugenio Finardi) e di appassionati del suo modo di fare jazz, che strizza un occhio a Jobim e l'altro a Ry Cooder. “Il fatto è che ho davvero due anime: ho iniziato a suonare la chitarra rifacendomi allo stile dei cantautori come Bob Dylan o Neil Young. Poi però sono stato letteralmente fulminato da Jobim e dai ritmi della bossanova,” spiega Sanfilippo che aggiunge, “dal punto di vista compositivo per me Jobim è come Mozart, è una fonte inesauribile di ispirazione. La sua musica mi ha aperto nuovi orizzonti". Una doppia anima, quella di Sanfilippo, che nel suo disco si incarna in tredici canzoni che dalle atmosfere brasiliane di un brano come “Festa mobile” passano alle sonorità da ballad americana (con tanto di dobro e armonica) di "Due ragazzi". Ma ci sono anche pezzi in cui è più evidente la ricerca di un percorso musicale autonomo, che porta il jazz della chitarra acustica a incontrare la musica elettronica. Tra l'altro, Sanfilippo si autoproduce (“per portare avanti una ricerca artistica personale, anche se magari non popolare”). In generale mi piace lavorare per altri musicisti quando trovo con loro un terreno comune, una sensibilità affine, come è stato con Eugenio Finardi o Cristiano De André”.
Laura Centemeri - Rockonline
Ci sono novità e movimenti nel campo della canzone d'autore italiana. Un'avvisaglia di questi fermenti si può cogliere già stasera con l'anteprima dell'album di Claudio Sanfilippo...che predilige toni delicati, atmosfere raffinate, composizioni scritte in punta di penna...
Enzo Gentile - La Repubblica
Un disco che merita attenzione. In Isole nella corrente è data grande attenzione alle armonie e alla ricerca di un suono cristallino e raffinato, senza dimenticare i testi che sono piccoli racconti di vita sul filo della memoria. Lo si potrebbe dire un album dai toni alla Hemingway, e non solo per il titolo...
Fabio Schiavo - Musica & Dischi
La musica italiana di qualità? Arriva dalle etichette indipendenti... Claudio Sanfilippo scrive deliziose canzoni d'autore spesso intrise di sonorità brasiliane e jazz, con arrangiamenti di gran classe.
Gigio Rancilio - L'Avvenire
Lontano anni luce dai trend della cosiddetta 'nuova' scena musicale italiana, Sanfilippo è l'ultimo depositario della grande scuola cantautorale 'ostinatamente' italiana, quella , per intenderci, che faceva capo a De André.
Paolo Vites - Jam
Certo che di suggestioni alte, culturali e intellettuali Claudio Sanfilippo ne sparge molte nelle tredici canzoni di questo album, Isole Nella Corrente, che rispolvera la tradizione più nobile della canzone d'autore italiana. Tra De Andrè, Conte e Fossati, per dire alcuni nomi importanti con i quali Sanfilippo si può facilmente raccordare. Offerti con voce calda, questi tredici appunti di viaggio sono bandierine poste sull'atlante dei sentimenti in chiaroscuro. Piacevolissimo.
Antonio Orlando - Musica & Dischi
Isole nella corrente non è un album da ascoltare in sottofondo, ma con attenzione, al fine di affrontarlo direttamente. Se gli si dà credito ci si accorge che le parole , e soprattutto la musica, ci accompagnano in un viaggio interiore al quale è difficile sottrarsi.
Rosario Pantaleo - L'Isola che non c'era
Questo illustre curriculum non viene smentito dalla nuova realizzazione, che regala canzoni delicate e raffinate sorrette da una classe non indifferente e dal desiderio di raccontare di sogni, di viaggi immaginari e profondo scambio di calore umano.
Il Mucchio Selvaggio
Brilla nella sua purezza acustica e nei sobri spunti elettronici, ribadendo il talento di un compositore che in passato ha scritto brani per Bertoli, Finardi e Mina e dimostrando come sia ancora possibile impugnare la forma con estro e moderna creatività.
Enrico "Sherwood" Rigolin - Rockit
Esordio di classe per questo nuovo cantautore italiano, i cui credits finora lo segnalano solo per il brano Stile Libero, che dà il titolo alla raccolta. Con l'aiuto di ospiti di prestigio come Rossana Casale e Eugenio Finardi snocciola una dopo l'altra le sue grandi passioni musicali, dalla musica brasiliana alle melanconiche atmosfere di certe ballate di Jannacci.
Il Manifesto
Il terreno della canzone d'autore italiana non è più vergine. Le grandi canzoni sono state cantate e i grandi dischi sono stati scritti, regalando ad autori come De Gregori, Guccini, Fossati e De Andrè gloria nei tempi e un bagaglio di esperienze e di stile non indifferente. Non è facile, insomma, ritagliarsi uno spazio proprio, con un pugno di canzoni originali che non facciano il verso ai Grandi, né si immettano nell'ormai trafficata strada della contaminazione. Claudio Sanfilippo e il suo Stile Libero ci fanno ben sperare perché possa nascere, se non una nuova, valida generazione di cantautori, almeno qualche ottimo singolo elemento. Stile Libero è un disco splendidamente fuori moda. Un disco che rifugge rumore e frenesia e trova rifugio in un mondo in cui le sfumature, i particolari, i dettagli sono ancora fondamentali.
Enzo Todesco - Jam
Claudio Sanfilippo