Se sapete cos’era il duplex, se vi ricordate delle musicassette, se sapete collegare la Stock di Trieste a Tutto il calcio minuto per minuto, se sapete che cosa è un transistor, se “Brrr Brancamenta” vi suggerisce una suggestione, se avete mai ascoltato per intero Com’è profondo il mare di Lucio Dalla, se siete in grado di riconoscere una Simca in un confronto all’americana partite davanti. Se poi Milano è la vostra città, di natali dati o regalati non importa, allora è vostra addirittura la pole position. Per la goduria di un piccolo grande romanzo, 78 di testo e 96 di volume, dal titolo Fin dove arriva l’acqua e dalla firma di Claudio Sanfilippo, scrittore, cantautore, paroliere, poeta, autore di teatro e, senza meno, milanese e milanista.Siamo alla vigilia di Natale, a.d. 1978. A Milano (dove se no?) pirlano (girano) al meglio che possono l'Ugo, la Marisa, la Nina, il Professur. La loro è una vita pane e salame in un tempo in cui mettere insieme il pranzo con la cena non è più una vincita al totocalcio. Le osterie sono sempre aperte per loro, se poi si tratta dell’Osteria del Pallone sul Naviglio meglio ancora, che così si arriva al Ponte della Tazzinetta dopo un piatto di rognone o di rane. Perché non c’è anima che viva senza i propri fantasmi che, quando si ripresentano all’improvviso, fanno un male tanto. Certo, affrontare gli spettri con un po’ di filosofia popolare e in lingua meneghina porta sempre a un alleggerimento dell’animo.I tempi non sono ancora diventati liquidi, anche se l’epopea della Milano gaberjannacciana è in picchiata verso una città che tra qualche anno si berrà. Il Giambellino, Porta Ticinese, le Varesine, ma soprattutto i due Navigli sono sempre lì ancora a ricordarci che, più che una metropoli, questa è una città di campagna come Lacchiarella, Zibido San Giacomo o l’Oltrepò. Tra qualche ora sarà Natale. E allora, damm a trà, te disi una roba, tu buttala via o mettila in saccocia…Se siete orfani dell’aria che respirate nelle pagine di Luciano Bianciardi, Umberto Simonetta, Carlo Castellaneta, Renato Olivieri, se vi manca della sana e autentica letteratura popolare, ritornate al periodo precedente. E completate i puntini di sospensione con l’impegno di entrare in libreria e chiedere di Fin dove arriva l’acqua di Claudio Sanfilippo. Poi tornate a casa e la sera liberatevi di amici, consorti e scocciatori. Sedete in poltrona e accompagnate la lettura magari con un fernet. E poi ditemi se non vi sentite meglio.
Corrado Ori Tanzi - Mescalina
Nel 1978 avevo 16 anni, e a ripensarci adesso di consapevolezza del mondo ne avevo poca o niente; nonostante mi stessi affacciando allora alla vita adulta, l’età della ragione, i miei ricordi della Milano di quel tempo non sono altro che un coacervo di emozioni che faccio fatica a riordinare.Eppure, sono convinto che Milano, la mia Milano di quegli anni, sedimentata in me profondamente, possa emergere con chiarezza davanti ai miei occhi, e così trasformarsi da indistinta nebulosa della memoria in pensiero chiaro e strutturato, incontrando un potente catalizzatore di parole: le parole di chi la mia Milano la sa raccontare. Le parole di una particolare specie di narratore, un narratore che è anche un rabdomante, quel genere di mago che sonda la terra per trovare l’acqua. L’acqua è la fonte primaria della vita. Ed è dall’acqua che Milano è emersa, l’acqua che oggi scorre nascosta nelle sue viscere, coperta “dai tedeschi” che sono arrivati e hanno “spaccato tutto”, ma che emerge prepotente di tanto in tanto, ricordando a tutti che la prosperità di Milano è stata per secoli la sua acqua, con quelle vie liquide in grado di trasportare la ricchezza verso il cuore della città, la Darsena, e da lì in qualunque altro posto, attraverso un complesso sistema vascolare di cui oggi percepiamo solo un opaco riflesso.Questo e molto altro racconta Claudio Sanfilippo con strumenti apparentemente semplici come semplici sono gli strumenti del rabdomante: una lingua tersa, fatta di immagini, musicale (anche per i riferimenti alla musica dell’epoca), accogliente nella sua immediatezza, ma che possiede livelli inattesi e profondità che si scoprono a ogni nuova lettura. Ecco allora, le vicende del microcosmo che si sviluppa intorno a San Cristoforo e alla Darsena; le vicende di un gruppo di “sopravvissuti”, a partire dal Bargiggia Ugo, ex operaio della Richard Ginori, mitica fabbrica di porcellane, trasformatosi in ranàt, cercatore di rane da vendere ai ristoranti; storie di un’intera città, del suo passato e dell’inevitabile cambiamento che si manifesta, come per le lucciole di Pasolini, nella scomparsa delle rane dai corsi d’acqua, avvelenate da un cambiamento malgovernato, ma forse ingovernabile.Persone, questi “sopravvissuti”, non personaggi, che mi sembra di conoscere e amare da sempre, tanto che anch’io ora inizio a considerarmi, come loro, un “sopravvissuto” in questa Milano nuova, a tratti irriconoscibile. E non è colpa di nessuno se la vita è fatta così, fondamentalmente ingiusta: lo sa la donna dell’Ugo, la Marisa, che inganna l’attesa dell’Ugo stesso, uscito di casa alla vigilia di Natale per incontrare la sua ex moglie Nina, il convitato di pietra della Marisa, tirando la pasta e preparando tortellini; lo sa l’Osvaldo, detto Tritùn, l’ultimo dei battellieri dei Navigli, che con filosofia attende il termine delle licenze di trasporto, pronto, pur di non abbandonare il suo mondo d’acqua, a raggiungere il delta del Po prima che i ghisa lo obblighino a lasciare il suo barcone; lo sa il Professur, ex professore di lettere, licenziatosi dal sicuro posto fisso e mutato in frontaliere della cannabis, che passerà il Natale, in barba alla tradizione, in un ristorante sul Ticino (acqua, ancora acqua…); lo sa il Gigi, amico di una vita, meccanico di moto e biciclette “in nero”, anche perché vedovo troppo giovane. E lo sa la Nina, proprio lei, che con un tempismo da record ricompare, dopo quindici anni di fuga in Francia, in una Milano dove i tramonti tersi e infuocati dell’inverno si alternano a cieli grigi e pesanti di pioggia e neve, per ricordare all’Ugo che lei, fuggitiva, in fondo non desiderava altro che di essere riportata a casa dal suo uomo; e che se n’è rimasta in quel paesino del Nord, che s’immagina silenzioso e spazzato dal vento gelido dell’Atlantico, battezzato, con involontaria ironia, Granville, ad attendere lui, proprio lui, il Bargiggia Ugo, uomo “sempre in ordine”, e con un “senso di responsabilità” che lo frega. Ma ognuno è fatto a modo suo, e l’Ugo, più di altri, ha avuto bisogno di tempo per decidere il momento per il suo colpo di teatro; come quando, fra la sorpresa e il disappunto di tutti ha pubblicamente abbandonato il sindacato, troppo politicizzato, incapace di dare una risposta al suo “sentimento di giustizia”; vent’anni gli ci sono voluti per arrivare a tanto, per trasformarsi per qualcuno in “pecora nera”, per qualcun altro in “mosca bianca”.Per la seconda e forse ultima volta, la più importante, quella che ricapitola una vita intera, ci hanno pensato la Nina, con il suo rossetto sbavato e i lunghi capelli neri di quando erano giovani, e una malinconica vigilia di Natale: ciò che è stato è stato, e non tornerà mai più. Ovvietà che però bisogna comprendere sulla propria pelle prima di poter cambiare vita sul serio, prima di cominciare “a disegnare traiettorie nuove”. Questo l’Ugo l’ha capito, ed è questa la spinta per riprendere la strada, nonostante tutto.Prima però è necessario un ultimo atto, eclatante, un’attestazione d’amore che ai più risulterà insensata o misteriosa o indecifrabile, ma che, invece, dà senso a ogni cosa: immergersi nel liquido amniotico della città, farsi una nuotata a zero gradi nella Darsena, per non dimenticare che è da lì che proveniamo, ed è lì che in cuor nostro vorremo sempre ritornare.
Flavio Villani